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In Emilia regnano i tortellini, in Piemonte gli agnolotti e il bollito, in Sicilia le sarde a beccafico. Un viaggio lungo lo Stivale alla scoperta delle tradizioni gastronomiche natalizie. Seguiteci.
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Arrosto di vitello, petto di pollo, lonza di maiale, bollito di manzo magro, pasta di salame, prosciutto crudo di Parma, noce moscata, parmigiano reggiano. Ogni carne viene cotta separatamente, poi tutto viene tritato assieme. Siamo a Cremona, il ripieno è quello dei marubini. Potremmo spostarci di qualche chilometro, o forse basterebbe la casa vicina, e troveremmo una ricetta diversa.
Nel periodo natalizio i ritmi sono più lenti, anche in cucina. Stanislao Porzio, nel suo libro-ricerca Natali d’Italia, si sofferma spesso su questa lentezza, questa pazienza «fatta di tempi dilatati». Di ravioli o tortelloni per i quali, alla faccia della tecnologia, la pasta viene ancora tirata con la mitica macchina Imperia, se non ancora a mano.
«Che c’entra tutto questo con la Milano di oggi?», chiede Porzio. Che c’entra tutto questo, allarghiamo lo sguardo, con i ritmi frenetici del lavoro, della socialità che diviene consumo, con la tecnologia che non ci migliora la vita ma ce la condiziona?
Forse, allora, le preparazioni lunghe e i pranzi che assomigliano a banchetti, oltre a richiamare riti, diventano anche forme di resistenza culturale. «Il cibo non è mai solo una cosa che mangiamo», dice Margaret Visser nel libro The rituals of dinner. «Usiamo il mangiare come mezzo di relazioni sociali: l’appagamento del più individuale di tutti i bisogni diventa un mezzo per creare comunità ».
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di
Thomas Bendinelli